Rio Usumacinta
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Yaxchilán e Bonampak
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Rio Usumacinta
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Percorrendo il Rio Usumacinta e visitando Yaxchilán e Bonampak

on
22 Dicembre 2018

Come sempre durante il nostro viaggio in Messico, abbiamo scelto un tour organizzato dal nostro albergo, situato vicino al centro di Palenque. Un furgoncino guidato da un pazzo spericolato ci ha portato dopo diverse ore in un punto di approdo da dove abbiamo preso una piccola barca in legno che ci avrebbe portato lungo il Rio Usumacinta. Questo segna la cosiddetta “carretera fronteriza”, ovvero il confine tra Messico e Guatemala. La povertà da queste parti si fa ancora più evidente, lo si nota da piccoli dettagli come i souvenir venduti, ricavati da tutto ciò che la natura offre.

La lancia era guidata da un uomo che probabilmente dimostrava molti più anni di quelli che in realtà aveva. Si chiamava Juan e durante il viaggio si divertiva ad indicarci diversi animali, tra cui innumerevoli scimmie che saltavano da un ramo all’altro e anche diversi coccodrilli che si mimetizzavano perfettamente sulle rive del fiume. Circa a metà percorso, lungo la parete del Canyon del Sumidero, ci siamo fermati sotto una cascata d’acqua chiamata “albero di Natale” per la sua forma caratteristica. La cascata veniva considerata miracolosa dagli abitanti del posto, in quanto in grado di donare eterna giovinezza a chi si bagnava sotto le sue acque.

Dopo circa 40 minuti di navigazione, siamo giunte presso il sito di Yaxchilán, nascosto in mezzo alla giungla. Tra le numerose e splendide rovine, ci è rimasto particolarmente impresso il palazzo col labirinto, all’interno del quale c’erano pipistrelli che dormivano sul soffitto a pochi cm dalle nostre teste! Tutto intorno si sentiva l’eco degli uccelli e delle scimmie urlatrici che saltavano su degli alberi secolari che, con i loro rami, sembravano quasi toccare il cielo.

Dopo la visita di questo primo sito, siamo risalite sulla nostra lancia, insieme al gruppo di visitatori provenienti da ogni parte del mondo e ci siamo diretti verso le meravigliose rovine di Bonampak (in lingua maya “muri dipinti”). Qui infatti è possibile visitare un tempio le cui pareti custodiscono le più belle pitture del Periodo Tardo Classico Maya: vi sono raffigurate scene di battaglia con guerrieri che rincorrono prigionieri da sacrificare, immagini di veri e propri sacrifici umani e scene di auto-sacrificio,  ad esempio l’atto di trafiggersi la lingua o i genitali con un bastoncino ricoperto di spine per raccogliere le gocce di sangue da offrire alle divinità, infine cerimoniali di corte con danzatori che si esibiscono al cospetto dei sovrani.

Prima di entrare nel tempio, un custode ci ha detto di entrare con il doveroso rispetto, facendoci togliere cappellini e occhiali da sole. Era la prima volta che ci succedeva in un tempio maya, ma appena varcata la porta ne abbiamo subito compreso il motivo. Quelle pitture erano di una bellezza sconvolgente, conservate praticamente intatte nonostante lo scorrerei dei secoli, il caldo e l’umidità che caratterizza queste zone.

Scese dal tempio, abbiamo incontrato una splendida bambina che si nascondeva tra gli alberi. Probabilmente era la figlia di uno dei guardiani o di una delle donne che vendevano piccoli oggetti per turisti. La bambina ci ha detto che viveva lì, a Bonampak, e che non frequentava la scuola. In quel momento un pensiero mi è passato per la mente: che bisogno c’è di rinchiudersi dentro quattro mura se hai la fortuna ogni giorno di correre tra queste rovine e toccare con mano una storia e una cultura millenaria da cui molto avremmo ancora da imparare? Per un attimo l’abbiamo invidiata molto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Florence

Questo non vuole essere un semplice blog di viaggi. Ci sono infatti modi diversi di viaggiare e di osservare. Il nostro è un viaggiare lento, che ci consente di cogliere punti di vista differenti. Soffermarsi su un dettaglio, un volto, il colore di un abito o di una pietanza, un rito o un semplice gesto, a volte ci dice molto più di quello che pensiamo di sapere. Proveremo a raccontarvi il mondo così com'è, attraverso l'obiettivo curioso di una macchina fotografica e lo sguardo attento di un'antropologa. In fondo, si sa, che conoscere l'altro è anche un modo per comprendere meglio noi stessi.

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